Ilaria Niccoli: brand designer in Asia

Un dazebao. Questo stai seriamente rischiando (nell’accezione positiva) di leggere. Non nella forma, meno nel contesto. Ma nell'anima.

Il dazebao che fu era uno strumento di manifestazione politica.
Il dazebao che è e segue la nostra intervista, invece, rappresenta l’incontro fra la voce di Ilaria Niccoli e l’urlo della sua ribellione, pacato nell’aspetto che assume ma molto meno nella sua essenza.

Sempre dazebao, non poteva che essere lui, già che aveva abbondantemente unito oriente ed occidente, strizzando l’occhio al monde dell’arte e stretto a sé la sfera del design.
Sì, dazebao, perché ognuno di noi deve pur avere il proprio. Se siamo in grado di rimettere in discussione il nostro modo di vivere, allora stiamo già scrivendo il nostro.

Così, quello che la nostra intervistata affigge al muro ha un design curato e studiato, potente nel suo destabilizzare e rassicurante nel raccontarci il potere dell’imprevedibile.
Semplicemente: go with the flow.

1. Ilaria, in due parole: chi sei? Dove ti trovi attualmente e in cosa consiste la tua attività di nomade digitale?

Mi sono sempre definita una designer.

Ho scelto di studiare disegno industriale sin dalle superiori e a quei tempi non c’erano tutte le sfumature che ci sono oggi. È più un’attitudine credo, un modo di guardare la realtà e affrontare le sfide in maniera trasversale e fuori dagli schemi, grazie a un mix di cultura, semiotica, marketing, ingegneria ed esperienza.

Da un paio d’anni ho aperto la mia società, Niccoli.Design, specializzata in branding, packaging e campagne advertising per il mercato asiatico.

Dopo aver vissuto in diverse città d’Italia, Shanghai e Londra, ho deciso di stabilirmi in Vietnam in modo da essere su un fuso vicino alla Cina (sede legale della mia società e mio principale mercato) e col tempo espandere la mia attività verso i mercati emergenti del sud-est asiatico.

2. Cosa ti ha spinto a diventare nomade digitale e qual è il percorso che ti ha portato fin qui?

Caratterialmente sono sempre stata molto indipendente e allo stesso tempo desiderosa di partecipare in maniera attiva alle decisioni manageriali dei posti in cui lavoravo, infatti per questo ho sempre preferito piccoli studi di design a grandi agenzie e aziende.

In Italia lavoravo a Partita Iva e, nonostante non fossi un vero libero professionista, questo mi ha comunque dato una certa libertà (per lo meno mentale) di fare dei lavori freelance paralleli, insegnare all’Università e concordare le ferie in maniera spontanea. Dopo 13 anni di lavoro a Milano però ho realizzato che in Italia non riuscivo a crescere a livello lavorativo: volevo imparare di più, confrontarmi con gente diversa, affrontare nuove sfide… e così mi sono trasferita in Cina!

Play hard or don’t play at all!

Qui la mia esperienza è aumentata in maniera esponenziale in pochissimo tempo e dopo qualche anno di soddisfazioni unite a frustrazioni e stress, ho capito che ero pronta a rimettermi alla prova e lavorare per conto mio.

Essendo impossibilitata a farlo in Cina per ragioni di visto, ho fatto armi e bagagli e sono tornata in Europa, destinazione Londra, la terra dei freelancers! Quasi subito ho però realizzato che il freelancer duro e puro che lavora a progetto per altre agenzie non faceva per me, non avevo voglia di lavorare per qualcun altro e spegnere il cervello una volta consegnato un lavoro. So che sembra una contraddizione, ma quello stile di vita che in tanti sognano e che mi avrebbe dato serenità non mi rispecchiava. Ho sempre preferito prendermi cura del cliente, definire insieme la strategia, capirne il tono di voce e aiutarlo a tirare fuori la sua identità. Essere considerata un partner più che un fornitore.

Parafrasando Jep Gambardella “io non volevo partecipare alle feste, volevo il potere di crearle”.

Così dopo un po’ che ero a Londra ho cominciato a far fruttare tutti i contatti acquisiti negli anni precedenti e molti lavori sono arrivati proprio dalla Cina. E dopo un po’ di viaggi intercontinentali e diverse ore di fuso orario, ho deciso di ri-trasferirmi ad est, scegliendo il Vietnam per le ragioni di cui sopra (e per il clima, e il mare, e il cibo 😬).

3. Qual è stato l’ostacolo maggiore che hai dovuto affrontare e come lo hai superato?

Credo che il momento più tosto sia stato il primo periodo in Cina. Quando sei di colpo catapultato in una cultura completamente diversa, circondato da gente che non parla la tua stessa lingua e non conosci nessuno, è molto facile chiederti “ma chi me l’ha fatta fare?”.

Ma è proprio lì che tiri fuori la tua personalità e il tuo spirito di adattamento e ti rimbocchi le maniche.

Questo passaggio mi ha fatto crescere molto.
E mi ha anche fatta uscire dal mio “torpore” tutto italiano in cui ogni cosa sembra difficile, burocratica e rimandabile. Mi ha dato l’energia e la sicurezza per provare nuove sfide e guardare le cose con il cappello del “perché no?”.

Entrare in contatto con tante altre persone venute da diverse parti del mondo per seguire un sogno (di carriera o di vita), mi ha fatto cambiare prospettiva. Ho cominciato a credere che effettivamente non c’è un solo modo di vivere, non c’è un giusto o sbagliato. Tutto è fluido e tutto è possibile.

4. Elenca tre pro e tre contro dell’essere nomade digitale.

Pro:

  • puoi decidere i tuoi orari e giorni off (anche se io non sono molto brava in questo);
  • vivi in maniera più spontanea;
  • incontri persone diverse da te e puoi aprirti agli altri senza pregiudizi;
  • sei libero di spostarti senza dover aspettare le ferie.

Contro:

  • è difficile creare rapporti duraturi stabili;
  • tutto cambia periodicamente in base al luogo o alle amicizie di acquisisci o lasci;
  • rischi di lavorare sempre e non fare mai realmente vacanza;
  • rischi di non viverti realmente il luogo in cui sei in quanto “chiuso” in un caffè o in albergo a lavorare.

5. Cosa significa per te essere nomade digitale? Qual è il tuo stile di vita, la filosofia esistenziale che ti accompagna nel tuo nomadismo? 

Più che ND mi sento “location independent”. Per me questo vuol dire essere flessibile e non essere vincolata alle decisioni di qualcun altro.

Non mi ritengo propriamente una nomade in quanto non ho interesse a spostarmi continuamente e anzi, lavorando nella comunicazione, ritengo sia importante conoscere a fondo la comunità in cui vivo. Per questo motivo quando mi trasferisco in un posto nuovo cerco di studiare la lingua (per quanto possibile) e avere connessioni reali con il territorio. Mi piace viaggiare e sono fortunata a poterlo fare senza doverlo programmare in anticipo, ma non è mai stata la mia priorità.

6. Pensi che l’essere nomade digitale possa avere un’influenza sulla nostra società?

Beh, lo abbiamo visto con la pandemia. Non sono sicura che il lavoro da remoto sia una soluzione per tutti, ma il fatto di avere la possibilità di farlo ha aperto altre prospettive e una diversa attitudine rispetto al lavoro 9-6, sia negli impiegati che nella classe dirigente.

7. Qual è il consiglio più prezioso che daresti a chi vuole intraprendere la tua strada o professione?

Lavora sui tuoi progetti personali, sviluppa un tuo stile, fai tanta ricerca e pensa fuori dagli schemi.

8. Hai un aneddoto da raccontarci, magari una piccola disavventura che ti è capitata in viaggio e che successivamente si è dimostrata una grande lezione?

Più che una disavventura è una storia a lieto fine, che mi va di raccontare per tutti gli aspiranti nomadi che sospettano che viaggiare li porterà ad una vita di solitudine! Qualche anno fa ero in ferie in Cambogia, avevo appena visitato Angkor Wat e il giorno dopo mi sarei diretta verso un’isola semi-deserta; questo ragazzo stava viaggiando via terra dall’Europa all’Australia e quella sera era a Siem Reap, pronto a ripartire il giorno dopo per il Laos. Ci siamo incontrati in un bar, lui ha deciso che in Laos in fondo c’era già stato e che quell’isola lì sembrava particolarmente interessante. Dopo dieci giorni, mi ha raggiunto in Cina e non è più andato via.

Ora siamo sposati.
E siccome anche lui è location independent, ci spostiamo assieme. 😊

9. Tre città o luoghi che un nomade digitale dovrebbe vedere almeno una volta nella vita e perché.

Tre luoghi soli è dura. Direi:

  • New York, perché è una città con un’energia assolutamente unica e soprattutto per un creativo ne vale la pena.
  • Il Giappone, in lungo e in largo, in tutte le sue contraddizioni, dalla Tokyo super moderna all’isoletta in cui puoi solo pagare in contanti ma non trovi nemmeno un ATM.
  • La Malesia, dove religioni, culture e lingue diverse convivono pacificamente e in totale armonia con una natura che toglie il fiato.

Indipendentemente dal luogo mi sento di consigliare di viaggiare da soli ogni tanto e provare ad immergersi nella cultura locale. Evitare le attrazioni turistiche, essere curiosi, fare domande, vivere come uno del posto per capire realmente un luogo. Questo non vuol dire solo mangiare street food, ma al contrario, anche sperimentare il nuovo locale alla moda dove vanno i GenZ per capire come la cultura sta cambiando in quel determinato posto e provare a capire come sarà nei prossimi anni.

10. Se la tua vita fosse un messaggio che dai al mondo, che messaggio sarebbe?

Go with the flow!

11. Sei felice?

Sì, dai, sono serena. Sono sulla strada che reputo giusta per me e ci sono arrivata senza bene rendermene conto (vedi la domanda precedente). La vita è imprevedibile: è fatta di incontri, circostanze, ed essere pronti a vedere ed accogliere il cambiamento ti dà l’opportunità di raddrizzare la rotta durante il percorso. Non c’è un modo giusto o sbagliato, l’importante è essere soddisfatti o darsi l’opportunità di esserlo.

👩🏻‍💻 Visita il sito web di Ilaria: https://niccoli.design
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📩 Oppure scrivile una mail a ilaria@niccoli.design

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Redazione
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